giovedì 14 aprile 2022

Simone Consorti - "Voce del verbo mare"


Simone Consorti è nato nel 1973 a Roma, dove insegna al liceo. Ha esordito con “L’uomo che scrive sull’acqua ‘aiuto’”(Baldini e Castoldi 1999, Premio Euroclub 2000, Premio Linus). Ha pubblicato i romanzi “Sterile come il tuo amore” (Besa, 2008), “In fuga dalla scuola e verso il mondo”(Hacca, 2009), “A tempo di sesso”(Besa, 2012),“Da questa parte della morte”(Besa, 2015), “Otello ti presento Ofelia” (L’erudita, 2018), “La pioggia a Cracovia”(Ensemble, 2019), “Vi dichiaro marito e morte”(Ensemble, 2021).

Sue piéces “Berlino kaputt mundi” e “Sterile come il nostro amore” sono andate, con successo, in scena, rispettivamente al Teatro Agorà e al Teatro Antigone di Roma tra il marzo e il giugno del 2018. Si occupa di street photography; ha tenuto mostre personali in Italia e partecipato a collettive in Francia e Russia


 “Voce del verbo mare”  

Nota di Renato Fiorito

 

Poesia sorprendente e briosa, questa di Simone Consorti, ricca di apparenti nonsense, che però un senso ce l’hanno, e di ossimori che conciliano opposti e aprono la strada a una realtà trasfigurata. Sin dal titolo il libro, “Voce del verbo mare”, è di quelli che non lasciano tranquilli, istillando incertezze sulla posizione da tenere, se cioè fermarsi all’apparente incongruenza del dettato o provare ad andare oltre per scoprirne il diverso significato, sfuggente e affascinante insieme. Ci si chiede insomma se si tratti solo di una divertente assonanza o se ci sia un’intenzione più profonda in cui vanno a confluire concetti passibili di nuovi sviluppi, l’intenzione cioè di mettere in correlazione aspetti concettuali e lessicali distinti, per destabilizzare certezze e fare emergere in filigrana gli intrecci di una vita più ricca e complessa. 

Dice in proposito il poeta: “Dietro questa poesia ce n’è un’altra/ che tu non sei in grado di leggere/ e il cui significato non potresti reggere/ “ (pag 12)


Si sa infatti che “mare” non è un verbo; eppure se per licenza poetica lo diventasse, si potrebbe coniugarlo, unirlo a pronomi personali: io, tu, noi, loro, e goderne tutti insieme, facendolo divenire un elemento liquido di socialità e divertimento, luogo azzurro in cui pulire l’anima; allora il titolo, bello e intrigante, avrebbe già in sé ragioni sufficienti per intraprendere la lettura.

Del resto la silloge è ricca di rimandi di questo tipo, di sollecitazioni a cogliere il non detto, di giochi di parole e suoni. Il titolo del primo capitolo, ad esempio: “Ti ho dato appuntamento senza dirtelo”è così atipico e stralunato che rimanda a pensieri segreti, tanto intimi e fragili da non potere essere agevolmente raccontati se non ricorrendo a contraddizioni tra detto e non detto, a ricordi diafani che lascino trasparire la luminosità di un tempo che non passa. 


“Ti ho dato appuntamento senza dirtelo/ e sono qui in anticipo da tanto/ perché so che non verrai/ ma non so quando” (pag.21)

Darsi appuntamento senza dirselo è infatti come l'adolescenziale speranza che sia la realtà a piegarsi spontaneamente ai sogni, senza dover lottare per realizzarla, anche se è noto che l’attesa inerte difficilmente viene premiata:

“Ho cominciato attendendoti nel giorno del nostro primo non appuntamento Da qualche parte si deve iniziare a imbalsamare un amore” (pag.27)


Nella poetica di Consorti, quindi, almeno per quanto riguarda questo lavoro, ci si imbatte spesso in un tempo saltellante, incerto, che non risponde al tempo lineare della narrazione canonica, ma piuttosto all'anarchia degli impulsi del cuore in cui tutto sembra concluso e tutto, invece, come in Parmenide, sempre ritorna, una specie di calembour che non è gioco ma riflessione sulla vita, così come si consuma nel caos dei sentimenti:

“La tragedia dell’autunno è nell’attesa/ in quelle foglie precarie/ dall’aria sospesa/ Conosco un poeta che aspetta/ da trent’anni in qua/ il suo grande amore scomparso/ un’ora fa” (pag 32)

O anche:

“Qualcosa è Paradiso/ se puoi dargli appuntamento tra cent’anni/ senza sentirti già in ritardo” (pag.87)

Così, con la stessa apparente leggerezza, nel racconto della vita, entra a pieno titolo anche la morte che, anzi, va ad occuparvi un posto centrale: 

“Anche quest’anno/ ho passato la mia data di morte/ senza riconoscerla/ Un giorno come un altro mi è sembrato/ e non l’ho festeggiato né scansato/ cercandomi un riparo/ Niente candeline/ né di compleanno né votive/ Anche quest’anno/ nel giorno della mia morte/ sono morto un miliardo di volte (pag.18)

Oppure

In ogni bara lasciateci un buco/ per farci entrare il mondo/ oppure un bruco// In ogni bara lasciateci un buco/ per fare uscire almeno un po’ di buio// C’è tutto ciò che han veduto/ negli occhi di ognuno/ quando si chiudono// In ogni bara lasciateci un buco a forma di nuvola (pag19)

 

Il secondo capitolo della raccolta, che si intitola: “Mentre Dio faceva il suo dovere”, sembra lasciare il periodo in sospeso: mentre Dio faceva il suo dovere… cosa accadeva in realtà? L’uomo realizzava le sue atrocità oppure assecondava l’armonia del creato? Distruggeva se stesso o operava per il bene? Consorti non lo dice ma lancia un amo letterario che aggancia la curiosità del lettore. Del resto è così che deve fare un buon libro, sollecitare curiosità, trattenere il lettore con un filo invisibile che lo porti fuori dal labirinto. Una delle risposte possibili che il poeta dà (quella che forse mi piace di più) è che mentre l’uomo cerca di curare i suoi mali il dovere di Dio è restare nascosto.

“…Trovava il suo sollievo torturandosi/ sempre allo stesso modo/ sempre allo stesso ritmo/ sempre allo stesso posto/ mentre Dio faceva il suo dovere/ restare nascosto” (pag.53)

Un’altra possibile risposta è che l'umanità va avanti comunque. perpetuando guerre, morte e dolore, indipendentemente da ciò che fa Dio.

(Tre guerre fa/ i morti che sto calpestando/ in questo cimitero di guerra/ calpestavano altri morti/ che avevano calpestato altri morti/ che si erano cibati della stessa terra) pag.82

 Così, nel “mare” consortiano,  diventato verbo, si avvicendano punti di vista disarticolati, spiazzanti che continuamente destabilizzano il lettore. Allora sarebbe meglio fermarsi a riflettere e non andare veloci, cercando di raccapezzarsi di più, poiché la verità è dura e complessa, e l’equilibrio instabile. Avremo però per compagnia l’amaro sorriso del poeta, il suo malinconico sarcasmo e soprattutto un nuovo desiderio di indossare ali di carta e di parole per non restare indietro nel volo.

“…Milioni di altri uomini/ sono morti e si sono riprodotti/ perché potessi scrivere i miei versi/ le mie bestemmie e i miei motti/ Milioni/ affinché potessi amare/ una ragazza ancora più impalpabile/ di tutti i vetri e le pagine” pag. 62


Infine è da osservare che Simone Consorti, essendo uomo di teatro,  conserva nella scrittura il gusto scenico della sorpresa, la prosa spumeggiante e ironica, mai bolsa e scontata, che non ammette noia né distrazione. Perfino nella nota autobiografica finale, intitolata "C'era una volta Simone Consorti", il poeta parla di sé in maniera estremamente godibile e originale, cosa non usuale nelle autobiografie, esprimendo al meglio una personalità istrionica dal gusto tagliente e raffinato. In essa addirittura sconsiglia di qualificare il suo libro come bello, importante e di valore, poiché a suo dire, esso sarebbe la risultante di pagine che non ha buttato via. Io però vorrei disattendere la sua raccomandazione e dire che "Voce del verbo mare" mi è sembrata una raccolta poetica ricca di creatività e di vita, e che mostra la piena padronanza della tecnica poetica da parte dell'autore. Perciò, sfidando la sua ironia, dico in coscienza che il libro che ho appena letto l'ho trovato bello e di valore.



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Voce del verbo mare

 

“Il vero infinito è il passato remoto

perché per l’eternità

nessuno potrà toglierci

ciò che è terminato già”

disse lui con un tono un po’ rude

“Semmai il passato prossimo

perché è iniziato ma non si conclude”

Poi riuscirono a litigare

perfino su come coniugare

l’infinito del verbo mare

 


Siamo a questo punto dell’autunno

 

Siamo a questo punto dell’autunno

in cui le foglie le guardiamo ormai da dentro

confuse col nostro riflesso

di qua dal vetro

come se vivere fosse

guardarsi indietro

 

Domani

toccherà ad altri

riattaccarle ai rami

 

 Pioveva il giorno del tuo matrimonio

 

Pioveva il giorno del tuo matrimonio

piove in questo del tuo funerale

ma oggi le gocce si confondono

e fanno più male

In questi vent’anni abbondanti

sei riuscita a farci entrare un’adozione

un divorzio

e una litigata talmente grande

che tuo figlio adottivo

dopo ti ha messa in disparte

Sapendo anche il resto

e come ti si è portata via

quella malattia che fa rima con amore

oggi nessuno lo dice

“Morta bagnata morta fortunata”

e io neanche dico niente

Guardo in basso scansando lo sguardo

dei miei genitori e dei tuoi

evitando tutto quel che non sia io

Io che devo mandare le bozze all’editore

io che devo mendicare una recensione

io che dovrei preparare una lezione

io che voglio uscire intero da questa chiesa

 che oggi ha fatto il pienone

A ripensarci pioveva

anche il giorno della tua prima comunione

 

18/11/1978  

 

Quando ordinerai il suicidio di massa

sarò accanto a te

annuendo a testa bassa

guardando la terra dove finiremo

e non il cielo

E mi dispiacerà soltanto

per chi ci credeva davvero

 

Ha un sapore strano

il preparato

Sa di fieno e di futuro

appena falciato

Va giù in un sorso

e prima di farlo

ha già fatto il suo corso

 

In tasca non ho frasi d’addio

In testa in cuore

non ho più niente di mio

solo una manciata di istruzioni

che eseguirò come il primo dei tuoi uomini

e l’ultimo degli automi pag 69


 

Questa poesia deve essere bella  (pag.97)

 

Questa poesia deve essere bella

perché domani all’alba gliela voglio dare

prima ancora che si alzi l’abito

e si mostri nuda al mare

Prima che faccia quel che ha fatto oggi

Non le dirò il mio nuovo nome

né ripeterò la stessa

vecchia presentazione

Solo le darò questo foglietto

sperando che lo legga

come si tira su l’abito

senza fretta

prima di donarlo al mare

in forma di barchetta

 

 

 

martedì 8 marzo 2022

Valeria Borsa - Lungo l'argine aperto

 



Valeria Borsa è nata a Voghera nel 1975. Conseguita la maturità classica, si è laureata con lode in Lettere antiche all’Università di Pavia con una tesi sperimentale sui problemi della traduzione e della didattica delle lingue classiche. È docente di Lettere presso l’Istituto Comprensivo di Tortona e autrice delle raccolte: “Canti dell’Altrove (Novi L., 2009); Kalendae (puntoacapo, 2011);  Il giorno prima che inizi la pioggia (puntoacapo 2015) -  3° classificata al Premio “Città di Recco 2016”. Infine con il libro Lungo l’argine aperto, qui recensito, nel 2017 si è classificata terza al Premio Letterario Castel Govone-Città di Finale Ligure. 

 

Lungo l'argine aperto 

Nota critica di Renato Fiorito


In un mondo gridato, Valeria Borsa nella silloge “Lungo l’argine aperto” sussurra versi di suadente armonia dal ritmo leggero e toccante. Il senso della raccolta è enunciato in estrema e efficace sintesi nel verso che l’autrice stessa pone in esergo al libro: “A mani aperte s’abbandona/ la vita all’accadere sperato”. Abbandonarsi alla vita, dunque, e lasciare che il destino compia il suo percorso. Come le foglie degli alberi che rinverdiscono e poi in autunno muoiono Valeria, con mani e mente aperte, asseconda il ciclo delle stagioni, lasciandosi trasportare dalla forza delle sue speranze. 

Il mondo tratteggiato nei versi è quello che le gira intorno: gli alberi, il gelo, le spine, i boccioli di rosa e la indicibile bellezza della vita. Ma Valeria non si limita a descrivere la natura, come mille altri poeti farebbero, ma porta avanti una ricerca espressiva, tesa a reificare il suo  stupore e farlo diventare sentimento del tempo: “ci accarezza il tempo e declina/ come il mare schiumando/ alla riva (pag. 24)

La poetessa colma perciò le sue emozioni di significati metaforici, nel riuscito tentativo di riportare alla luce le radici profonde del suo essere e abbattere l'argine che separa sempre la vita reale dalla composizione letteraria, rimestando la terra del suo giardino segreto e portando sconvolgimenti e verità sconosciute all'anima recalcitrante “E la mia anima scalza/ stride,/si piega,/ diniega. (pag.17)

Dunque il giardino: quello di casa: “Lrosa che stasera/ bagna rugiade d’acqua/ si piega,/ spera e si piega. (pag.22), e quello intimo che dà significato all’esperienza del tempo: “trovo soltanto gli avanzi del tempo/ che si è spento e le ore/ si accartocciano dentro, (pag. 21). Suggestioni che si esplicitano in perfetta sintesi compositiva con versi che sono  contemporaneamente fuori e dentro il tempo, in un giardino che diventa metafora di vita, dolcezza di “…eriche/ e muschi nella brughiera (pag.25)

Ma è nella seconda parte della raccolta che l’acqua, protagonista della narrazione, rompe gli argini, sfuggente e rumorosa invade le campagne e le lunghe risaie bianche, mentre la natura circonda il lettore col suo trionfo colorato, le nuvole violacee, l’aria tremula di mare, i rettangoli assolati. Al centro di questa esplosione cromatica c'è l’inarrestabile, struggente scorrere della vita. L’argine abbattuto non è qui portatore di catastrofi ma occasione di scoperta e rinnovamento, trasformazione della realtà e di noi stessi, porta aperta sul nuovo ad annunciare la primavera: “Qui/ l’inverno ormai è lieve/ di sole aranciato all’imbrunire/ (pag.45) e “onda dopo onda inesorabile/ il tempo della meridiana ride” (pag.46)   

Dunque una poesia ricca, sorprendente, metaforica, che avviluppa, carezza, corrode, con un dolore dissimulato e sommesso, simile a quello de “l’agave spinosa piegata/ nell’orgoglio dell’ultimo/ suo unico fiore.” (Pag.41), e una poetessa discreta, amichevole, di una umiltà fraterna e splendente che infine commuove, come la viola selvatica che lei cita in una delle poesie finali, quasi a volersi congedare con un sorriso: “Sai? Mi riconosco/ viola fuori stagione/ lungo i fossati intrisi di novembre. (pag. 49)

Avrete a questo punto certamente capito che la poesia di Valeria Borsa mi piace poiché ha il merito non irrilevante di non seguire le mode artefatte, l’esibizione di un linguaggio iniziatico di incerto contenuto. Al contrario, la sua poetica è sincera, spontanea, efficace, densa di riferimenti, allusioni, valori. Si legge con un piacere quasi voluttuoso, a dimostrazione del fatto che si può essere chiari senza essere banali, carezzare senza dovere sempre graffiare, e, perché no, anche consolare, facendosi balsamo per le ferite che questo tempo infelice e distorto da ultimo ci  infligge.

 


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Amo

l’incerto stare

di febbraio

la tenace

delicatezza del croco

la carezza di brine e spine

morte al gelo

e i boccioli delle rose

che ho seccato

che invece stanno lì

impertinenti

polverose sirene

di ciò che poteva

e non è stato.


 

Ora

 

Ora che i giorni sono giorni

soltanto, senza attese

e gli azzurri spade

sui ricordi di cielo

non c’è più velo tra il presente

e il niente

il mai più

per sempre...

Ora che sulle strade vado

cercando in altri specchi

trovo soltanto gli avanzi del tempo

che si è spento e le ore

s’accartocciano dentro,

raggrinzite speranze d’inseguire

lo scatto di cerbiatto tra i rami

e le nostre avide

centellinate parole

che pure

avevano forma d’amore.


 

Urbana

 

Raccontare l’odorosa lentezza

delle strade

nella sera

serpeggiare stanco di luci

accogliente di case,

come pronte sempre al Natale.

Caldo di baci schioccante alle file

di carrelli sonnambuli

nell’artificio commerciale

baloccante tutto di neve: ma qui?

Qui

l’inverno ormai è lieve

di sole aranciato all’imbrunire,

avvolto in sciarpe pensierose

di remote parole luminose

dietro all’ombra veloce

che ci accompagna sola,

sopravvivendo al morire.



 Riconoscenza


Sai? Mi riconosco

viola fuori stagione

lungo i fossati intrisi di novembre,

al bianco tepore

della bruma che oscura

i contorni dei giorni a venire

e riflette fantasmi opachi, echi

di quel che è andato e pur resta:

nelle cose,

nelle pieghe consunte di un cuore

avvinto in inestricabili spire.

In questo perdersi fioco

non chiedermi

un mondo nuovo per noi:

solo l’alba vorrei sentire

del dormirti accanto.


giovedì 6 gennaio 2022

Luca Benassi - Istruzioni per la luce

 


Luca Benassi è nato a Roma nel 1976 dove vive e lavora. Ha pubblicato le raccolte poetiche Nei Margini della Storia, (2000), I Fasti del Grigio (2005), L’onore della polvere (2009), le plaquette Di me diranno (2011) e Il guado della neve (2012) e, da ultimo,  "Istruzioni per la luce" – Passigli 2021 - che qui segnaliamo. 

Ha pubblicato inoltre antologie poetiche in giapponese (insieme alla poetessa Maki Strfield, edizione e-book 2016), spagnolo (2018), macedone (edizione bilingue -2019) e serbo (2019). 

Ha tradotto De Weg del poeta fiammingo Germain Droogenbroodt (Il Cammino, 2002). Ha pubblicato la raccolta di saggi critici Rivi strozzati poeti italiani negli anni duemila (2010) e curato le opere antologiche complessive di Cristina Annino (Magnificat. Poesia 1969 – 2009, 2009), Achille Serrao (Percorsi nella poesia di Achille Serrao, 2013) e Dante Maffìa (La casa dei Falconi, poesia 1974-2014, 2014).


"Istruzioni per la luce"

Nota critica di Renato Fiorito

 

“Istruzioni per la luce” di Luca Benassi - Passigli editore – 2021 - inizia dagli ultimi, dalle esistenze più povere, deprivate di valore nella considerazione corrente e, tuttavia, cariche di umanità e di dolore, un piccolo campionario di vite senza identità, dissipate ai bordi delle strade nella disperazione e nel silenzio.

Infatti è proprio il silenzio, insieme alla luce, il tema centrale di questa raccolta; se ne avverte il carattere quasi religioso, il modo sommesso in cui avvolge la narrazione.

Il poeta si pone al centro di questa esperienza emotiva, trovando ragioni di resistenza nelle radici della vita, nel ritmo stesso del respiro, : “Non avere paura,/ abbi certezze, invece/ nell’azzurro, nel sogno,/ nel battere e levare/ che ci solleva il petto” - pag25, - nella richiesta di un "... mio angolo di paradiso/ il mio acconto di luce" pag.26 -, nell'amore che vince le distanze "Per ogni mia partenza c'è un ritorno/un luogo privato tra le banchine/dove il tuo abbraccio è un bruciare di rosso/ -pag34 - .

Luca Benassi inizia così a tessere il suo rapporto con l’universo, avendo lo sguardo rivolto “…alla purezza sgranata nella preghiera del mattino, alla pietra aperta, alla ferita guarita”-pag.31 -, evocando un universo di luce che si diffonde sull’intera raccolta, nella pandeistica fiducia che le cose nascondano significati che trascendono le cose stesse e che la parola può rivelare, una “parola che brucia in petto/ come un perdono/ incendiato di paura”, pag. 36 Per questo il verso si arricchisce di echi, metafore, suggestioni, e va alla ricerca una perfezione lessicale che è estetica e etica insieme, una ricerca di Dio che appare e si nasconde, delude e esalta.

Un sentimento naturale di gioia introietta ogni tassello del mondo, lo assapora e se ne lascia penetrare, identificandolo con l'amore, il sogno, la bellezza, che è insieme sostanza del mondo e corpo di donna e che informa di sé tutta l'opera.

Così si legge di partenze e viaggi, di treni che sgranano stazioni semideserte e portano con loro un sentimento di armonia con il vento, la sabbia, il paesaggio, e la promessa di occhi che presto appariranno all’altro capo della linea a dare senso e valore al viaggio; e poi strade che sembrano quinte di teatro, che raccolgono vento e amore, incontri e temporali, e portano a una casa che accoglie e custodisce la favola eterna della vita: “Tu sei in quest’acqua che scroscia/ rumorosa dalle gronde, /penetra la terra come un dovere/ e scorre come un bacio di latte/sulla pelle rossa delle tegole/ di questo petto che si fa casa” - pag. 58

Se la prima parte del libro è pervasa da questa magnifica luce, la seconda, per una sorta di contrappasso, si addentra junghianamente nelle ombre del male, nei ricordi rifiutati e rimossi delle tragedie causate dalla umana follia. Si ripercorre così il delirio assassino delle Fosse Ardeatine, la bomba di Hiroscima, la tragedia dei minatori di Marcinelle, lo scoppio della centrale nucleare di Chernobyl. Qui il poeta si fa uno e molteplice, narratore in prima persona della tragedia immane che in lui rivive. Egli diventa vittima tra le vittime, ne raccoglie pietoso gli ultimi pensieri, il respiro e la paura, in una partecipazione simbiotica e solidale che dice che nessun grande dolore riguarda solo una persona ma chiama in causa la dignità del genere umano, la perdita di luce e di bellezza, l’innocenza di ognuno davanti a Dio.

Un bel libro, dunque, questo di Luca Benassi, profondo, maturo, intenso che ancora una volta fa giustizia dei tanti che, senza sottoporsi alla fatica della ricerca, sentenziano che la poesia è morta. “Opera compatta”, osserva giustamente Elio Pecora nella sua bella prefazione, “nel segno alto e aperto della compassione”, intesa come un “patire insieme”, portarsi dall’altra parte… travalicando l’umano… per farsi anima del mondo, grumo nell’essenza.  








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(amare, uscendo dall’osteria)

E poi ci sono i tavoli di osteria, i bicchieri

che rimandano scaglie di purezza

nel tintinnare tagliente dei coltelli,

la bottiglia d’acqua fuori frigo,

i tovaglioli gialli, la linea curva della fronte

che si frange sulla punta

che divide i tuoi capelli.

Già la strada sembra un grido di vento

un azzurro ingolfato fra le chiese

a levigarti il sorriso sopra il volto

che risplende nella piena del sole

che ci invade.

  

(cercando Dio)

Mi chiedo dov’eri all’alba più vera,

quando i sogni si fanno latte

e le parole entrano nelle palpebre

come aghi nella luce.

Mi chiedo cosa potevi dire

quando mi contavano il sangue

nel reticolo azzurro delle vene

e il corpo si faceva molle e dolce

come una carta stellata, piena di numeri.

Al dunque non c’eri, eri assente,

nel bianco dei confetti, nelle veglie,

nella carne tagliata dai referti,

nella gioia dei vagiti, nella corrosione

dei rimorsi.

Ora quasi dai fastidio

come una luce accesa all’improvviso

sugli occhi schiacciati

contro il buio.

  

(aspettando un treno)

I binari tracciano linee per gli occhi

posati all’incrocio dei marciapiedi

e sembrano quasi chiedere perdono

all’innocenza dei bambini

sulle panchine fra i baci

rubati alla certezza del tempo

che buca il futuro e lo ridona intatto.

Io sono qui, a metà strada da tutto,

nel gioco felice dei partenti

nel dolore degli addii

a chiedere il mio angolo di paradiso,

il mio acconto di luce

con gli occhi lasciati sull’asfalto

e un cuore blu, pieno di tumulto.

  

(nome)

Forse darò un nome a questa terra

che separa il binario tre dal mare

e inciderò i segni e i colori

sul selciato della pensilina

nel taglio degli occhi che mi attende

all’altro capo della linea.

Darò un nome a questa attesa

agli annunci, alla fila delle stazioni

che scorre rossa sul monitor

mentre arriva il mio convoglio.

Si parte così, ascoltando il vento

che porta il suono della sabbia

scolpita dai passi di questa ostinazione

del ritornare all’orizzonte dei nostri volti.

 



martedì 7 settembre 2021

Elio Pecora

 Elio Pecora: "Rifrazioni"  (Lo specchio Mondadori 2018)




Elio Pecora è tra i più significativi scrittori italiani contemporanei. Ha pubblicato libri di poesie, prosa, saggi, racconti, testi per il teatro. Ha collaborato per la critica letteraria a: La Voce Repubblicana, Mondo Operaio, Il Mattino, La Stampa-Tuttolibri, L’Espresso, Nuovi Argomenti, ecc. e a programmi di Radio Uno e Radio Tre. Dirige da un decennio la rivista internazionale “Poeti e Poesia”.

Tra i libri di poesia citiamoLa chiave di vetro (Cappelli 1970); Motivetto (Spada 1978);  Dediche e bagatelle  (Rossi & Spera 1990); Poesie 1975-1995 (Empiria 1997 e 1998; Favole dal giardino (Empiria 2004 e 2013); L’albergo delle fiabe e altri versi (L’orecchio acerbo, 2007); Simmetrie (Mondadori Lo Specchio, 2007); Nel tempo della madre (La Vita Felice 2011); In margine e altro, (Oedipus 2011). Rifrazioni è il suo ventesimo libro di poesie.



“Rifrazioni” di Elio Pecora

(Nota di Renato Fiorito)

 

Il titolo della raccolta trova una sua prima spiegazione nella citazione del poeta russo Iosif Brodskij (premio Nobel 1987), posta in esergo al libro, : “Che funzione abbia la poesia davvero non lo so. È semplicemente, per così dire, il modo in cui per te la luce o il buio si rifrangono”.

La poesia è dunque un riverbero della realtà che balugina nella mente, luccichio o ombra che sia. Elio Pecora affida i suoi versi a questa impalpabilità, alla delicatezza e fragilità delle sue percezioni perché, come scrive nella lirica di esordio, il frastuono della banda non si addice alla poesia; essa piuttosto è sensibile al dettaglio, all’attacco dell’oboe, all’accordo di una viola, al silenzio incontaminato che si estende a dismisura al di là delle porte della vita.

Il poeta ci introduce così al silenzio che verrà, all’attesa e l’accettazione socratica della fine delle cose, tema che gli è caro e che svilupperà nel corso del libro: “…ogni storia, tutte le storie /si riducono a un susseguirsi insensato/ di conquiste e di perdite e l’intero pianeta/ non è che l’abitacolo in rovina…”(pag. 16) Ma da ciò non deriva una poesia cupa e rassegnata, perché alla certezza della fine fanno da contrappeso la concretezza delle cose, la grazia del dettaglio, i piccoli eventi che segnano la quotidianità: “… una nube violetta,/ l’odore di un cibo, una voce al telefono,/ il libro lasciato sul tavolo ancora da leggere./ Così il mondo intero si popola di storie concluse, di passaggi, di soste, e un dio munifico/ disegna nel cielo vasto e chiaro un arcobaleno.” (pag.17). Il poeta accetta dunque la caducità delle cose, il loro lento estinguersi, ma non rinuncia al  cielo: “Conviene che è una strana faccenda/ annaspare nel fango occhieggiando le stelle” (pag.24), traendo dal contrasto tra transitorietà umana e eterno brillare dell’universo la sua struggente poesia.

“Rifrazioni” è caratterizzata da due dicotomie: quella buio-luce, dove la bellezza viene cercata nelle parti in ombra: “Il meglio - dice – quel che chiamiamo sublime/ sta nell’ombra, nell’angolo: occorrono occhi/ per vederlo, orecchi per ascoltarlo…”, (pag.21), e quella silenzio-rumore in cui “È smisurato il silenzio che succede al rumore/ è il niente. Il vuoto privo di voci, di echi…” (pag.23), e l’uomo è fragile foglia, in attesa di un segno o di un niente, in bilico tra paura e speranza, immerso nei suoi piccoli intrecci a fronte dell’immensità dell’ordito (pag.31).

Si snoda in tal modo il mistero del tempo, la sua caducità, il suo variare, essendovi tempi che durano un istante e tempi che durano un’intera vita: “un altro tempo corre in questo tempo/ che contiamo a minuti/ è l’ansa dove il sogno della mente/ non conosce durata,/ la parola che tenta se stessa/ esatta, svelata.” (pag.44), parola che diventa infine strumento per traghettare l’anima verso più profonde verità interiori, sempre sconosciute e sempre cercate: “…La parola non è più di un cenno, un avvio/ per un altrove nemmeno ancora intravisto” (pag.57) “...parole veloci… tanto scarne e sommesse/ da evaporare come fuochi di foglie secche/ nel fasto degli urli e dei proclami.” (pag.58).

Così può verificarsi “…lo strappo, l’incaglio, la discordanza infeltrita, / e disperata la certezza anche abbagliante, / del niente nel niente. E dopo il diluvio senz’arca.” (pag. 59) e in questo mondo liquido, immerso nel silenzio, può accadere che due amanti si incontrino ma non abbiano più parole per confidarsi il dolore sbiadito della loro vita: “Non si parlavano i due. L’aria si spense. Nella serranda il mattino” (pag70) “Rimasero a lungo in silenzio / prima di allontanarsi/ senza un cenno, un saluto/ciascuno verso un suo luogo/ “(pag.71).

Come la luce viene pienamente recepita solo dopo avere attraversato il buio così la parola acquista valore solo quando nasce dal silenzio: “Per provare da dove veniva/cercò una voce nascosta/ e la trovò solo/ quando ebbe inteso/ il silenzio da cui/ l’aveva tratta” (pag.75)

Diverse sono le variazioni di tono e ritmo di questa raccolta. Nel penultimo capitolo “Lo spessore dell’ombra” in particolare, il verso si fa più lungo, suadente, discorsivo, accorato, intimo. Cambia lo stile perché più commosso è il sentire, più viva la percezione. Un nuovo tempo scorre dentro al tempo. Ritornano prepotenti i ricordi, il pensiero degli affetti, le semplici vite: il padre marinaio che torna ormai vecchio, col baule mezzo vuoto, a confessare l’inutilità del suo sacrificio; la zia, legata indissolubilmente alla casa arrampicata fra gli orti, che si guadagna da vivere filando lana di pecora; la madre che diviene figlia del figlio per cercare conforto alla morte che ormai sente vicina. Un universo affollato di familiari, amici, persone umili e celebri poeti, come Luciano Erba, Dario Bellezza, Aldo Palazzeschi, Amelia Rosselli, ecc., a formare un intreccio di relazioni che dà consistenza e unicità alla vita del poeta.

Il tema e l’intensità dei versi in questo capitolo richiamano alla mente “L’elogio dell’ombra” di Jorge Louis Borges e il suo universo poetico avvolto in una patina di malinconia in cui le parole, il tempo, i fatti hanno risonanze intime e profonde. Similmente Elio Pecora, dal suo rifugio d’ombra, osserva il mondo che lentamente si allontana: “L’aria è piena di anime… Non è perdita l’addio/ se lascia tracce nelle stanze aperte del cuore.” (pag.82) e alimenta il suo canto alla vita, al suo mistero, al suo incessante replicarsi, e alla morte che ne fa parte, dando senso e fine ai pensieri: “Moriamo alla morte dell’ultimo che ci ha conosciuti…le parole bastano solo per poco a colmare il silenzio…memoria e oblio reciprocamente si nutrono” (pag.80)

I sogni degli uomini in fondo si assomigliano tutti, si confondono e si sommano fino a diventare col tempo un unico grande sogno, che poi è il sogno dell’umanità, il suo trasalire davanti alla morte, che è condizione indispensabile perché altre vite inizino. “In questo sogno vado, respiro. Ne esco /e non m’è dato di tornare se non come l’ombra/ di un'ombra nel sogno di un altro/ che va camminando il mio sogno” (pag. 110).  E in altra poesia: “Quanto di tempo impiegherà quest’uomo,/ così tanto occupato da se stesso,/ a sentirsi a misura della foglia/ che spunta da una minuscola polla/ …. Poi ingiallita staccarsi, accartocciarsi/ in un suo soffio breve appagata/ disfare la sua cenere nel vento?” (pag.123)

Grande poesia, dunque, che segna la nostra letteratura, ma sarebbe esercizio forzato attribuire a Elio Pecora ascendenze o discendenze, appartenenze a correnti e parentele letterarie. Essa si sviluppa infatti in piena autonomia, appartata, incurante delle mode. È scrittura meditata che, mantenendo il proprio solido equilibrio, coltiva una suadente musicalità, brilla di una sua imperturbabile nobiltà.

Mentre leggo Rifrazioni mi pervengono dalla televisione notizie di guerra, attentati in cui vengono massacrate decine di persone innocenti, donne e bambini fatti a pezzi per dare effimeri segnali di ferocia su cui poter costruire un nuovo potere assassino. Rifletto allora sui bei versi di Elio, sulla sua sensibilità estenuata, sulla cultura del rispetto e dell’attenzione coltivata per tutta la vita, e sulla dolcezza dei ricordi con cui ha saputo trasformare in musica le parole e, pur se mi sembra che questo mondo gentile sia vicino a sparire e che le parole fraterne non abbiano più forza per essere capite dalla barbarie umana, gliene sono grato perché essi ci aiutano a ritrovare le nostre radici culturali e civili e a ricordarci che, nonostante tutto, come lui scrive, il mondo è colmo di vita e il silenzio è un brusio incessante di fiori, un esercito di milioni di formiche, il verso rauco di una cornacchia, un pigolio sommesso, l’ombra di una acacia sul muro di una casa, ferma e insieme mutevole nel suo tempo immisurabile. (pag.81)





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Un altro tempo corre in questo tempo

che contiamo a minuti;

è l’ansa dove il sogno della mente

non conosce durata,

la parola che tenta se stessa

esatta, svelata.

 

***

 

Può anche precipitare l’ora, ma è così lunga l’attesa

dell’amante che attende, così sterminata l’ansia

di chi veglia il bambino malato, così smisurata

la gioia per un gesto, per una frase brevissima,

e a misurarla non è più di un istante,

 

***

 

Il giardino

 

È solo un recinto il giardino

di verdi che svariano,

e i bianchi e gli azzurri degli ibischi,

il rosso tenero dei lillà,

le dalie gialle e amaranto…

E un tempo senza ore,

una luce striata di ombre.

 

Solo un recinto il giardino

dove il cuore e la mente si alleano

in una chiusa dimenticanza.

Qui è intero lo stare,

un punto di tutto,

la grana taciuta di una voce

che non si conosce.


***


"C'è stato un tempo in cui sono stato felice"

si dice l'uomo che non riesce a dormire,

ma cerca invano nella memoria confusa

anche una sola scaglia di quella luce;

e pure sa che gli è toccato quel bene

se ne conserva ancora il forte richiamo.


Di quali ragioni s'intesse il desiderio

se di continuo si mostra in dismisura!